Il filosofo Kierkegaard ci invita a riflettere sul fatto che la filosofia è nient’altro che l’espressione di una visione del mondo totalmente personale. Esistenzialisticamente egli considera la vita come caratterizzata dal fatto di trovarsi sempre dinanzi a delle scelte che, in quanto totalmente e assolutamente libere, sono anche viste come angoscianti.
Perché oggi molti adolescenti sperimentano un senso di vuoto? Perché hanno bisogno di riempire ininterrottamente il loro tempo e il loro spazio? Perché sembrano aver perso l’abitudine a parlare di se stessi in termini emozionali?
Parlando con gli adulti, che un tempo sono stati bambini e adolescenti, difficilmente sentiremo porre domande come queste. E’ più probabile che ci troveremo ad ascoltare frasi lapidarie,sentenze e giudizi morali sulla maleducazione delle nuove generazioni, sulla mancanza di rispetto e sul senso di inutilità delle regole. In realtà, sempre più di rado sentiamo la gente porsi domande. Qualcuno sorriderà pensando a quanto possano essere fuori moda al giorno d’oggi domande esistenziali del tipo “Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?”. Con l’urgenza dei “veri problemi”, del tipo “come arrivare a fine mese”, trovare uno spazio per simili domande sembra davvero un lusso da otium letterario che non possiamo permetterci. Ma proviamo ad uscire un attimo dai luoghi comuni che vedono la filosofia come qualcosa di puramente teorico, speculativo, astratto e distante anni luce dal vivere quotidiano. Se torniamo nell’antica Grecia di Socrate, il filosofo che nell’agorà parla con i suoi concittadini di politica e di etica, ci rendiamo subito conto che il filosofare è connaturato al vivere, ha a che fare con la cura di sé, appartiene alla dimensione umana dell’esistenza. Il socratico conosci te stesso è un’esigenza reale, oggi più attuale che mai. Già, perché siamo sempre più proiettati fuori da noi stessi, e chi ne fa le spese è la nostra interiorità; così pur avendo a disposizione innumerevoli modi e strumenti per comunicare, orientarci, decidere, agire, (si pensi allo sviluppo tecnologico) restiamo paralizzati di fronte alle tante possibili scelte che abbiamo a disposizione o con cui siamo chiamati a confrontarci...
Questo disagio emerge con forza quando i soggetti della scelta sono i ragazzi, “gettati nel mondo” senza gli strumenti nè la possibilità di interrogarlo quel mondo, il loro mondo che non è più loro, perchè incapaci di rivolgere a se stessi le giuste domande, sono divenuti incapaci di interrogarsi e mettere a fuoco ciò che li circonda. E così, pur essendo i candidati ideali di un atteggiamento filosofico-esistenzialista di indagine, messa in discussione, esercizio del senso critico, in quanto esseri curiosi e soggetti alla meraviglia per eccellenza, i ragazzi si trovano a sperimentare un senso di spaesamento legato alla scelta perché in loro viene continuamente mortificato l’istinto della domanda. La scuola, che ha purtroppo dovuto rinunciare da tempo alla sua funzione di “scuola di vita”, perché costretta a concentrarsi sulla pura e rigida trasmissione di informazioni, è divenuta un
luogo in cui i ragazzi sono chiamati (o sarebbe meglio dire “interrogati”) quasi unicamente a dare risposte per cui ricevono in cambio un voto che dovrebbe stabilire il livello di verità delle loro parole e delle loro idee. Se quindi nei delicati anni in cui la sua identità si va formando, il messaggio che arriva ad un adolescente è quello della necessità di “avere tutte le risposte”, ma manca la capacità di porsi e porre domande, il risultato non può che essere un impoverimento dell’esser-ci.
Dialogando con i bambini, gli adolescenti e i ragazzi che sono continuamente in relazione con il mondo degli adulti, ci rendiamo conto di avere a che fare con individui con “ansia da prestazione” da risposta, che hanno costruito un ruolo per se stessi senza sapere nemmeno chi si nasconda dietro quel ruolo, terrorizzati come sono dalle domande di cui non conoscono le risposte, poiché pensano che una domanda per cui non possiedono una risposta nel qui ed ora rappresenti un fallimento personale e nasconda una loro incapacità. Tutto questo non fa che alimentare il senso di disagio e di spaesamento per cui, anche il percorso di crescita e costruzione dell’identità non è più guidato, orientato, ma in balìa di questa perdita di senso esistenziale sempre più diffusa. In questo scenario il bambino non può più essere bambino, l’adolescente non vuole più essere adolescente e l’adulto vuole tornare bambino, rimpiangendo la fanciullezza perduta. Anche nel mondo del lavoro molto spesso all’adulto viene chiesto espressamente di non pensare con la propria testa perché il confronto di idee e il senso critico sono visti come minaccia o perdita di tempo, sono aspetti considerati fuori tema. Di conseguenza, quella del non domandare e del non domandarsi è diventata un’abitudine che l’adulto, proprio come l’adolescente e il bambino, si trova a sperimentare giorno dopo giorno. E’ chiaro allora che viene a mancare proprio quella preziosa risorsa che è il confronto nel momento in cui la comunicazione tra adulti e adolescenti tende a riprodurre le stesse dinamiche di cui entrambi fanno esperienza nella propria dimensione di quotidianità. Ma la quotidianità, e la vita, ci obbligano continuamente a fare delle scelte, e senza domande non c’è possibilità di scelta.
Come orientarsi allora? Torniamo a Kierkegaard e al rapporto tra libertà e angoscia. Si tratta di ricontestualizzare questo rapporto e stimolare le diverse e possibili “visioni del mondo” veicolando una riflessione che ponga l’accento sugli aspetti positivi e sul valore della libertà nella scelta a scapito dell’angoscia, e sul concetto di possibilità come apertura di senso, come strumento di rottura del limite. Tutto ciò ovviamente non come mero esercizio di stile speculativo, ma come base su cui costruire un nuovo modo d’ esser-ci (heideggerianamente inteso) e di stare al mondo, un mondo in cui le emozioni, la diversità, l’unicità, sono valori aggiunti, non separati da pensiero e azione, ma guida per orientarsi nella vita. Sarebbe interessante in questo senso avvicinarci fin da bambini alla filosofia introducendo, ad esempio, fin dalle scuole elementari quella pratica filosofica nota come Philosophy for children il cui fine è proprio quello di abituare a porre e porsi domande, stimolando così lo sviluppo del senso critico.
L’atteggiamento filosofico, d’altro canto, richiede tempo. E’ necessario sostare presso se stessi, sperimentare la solitudine dei propri pensieri per poi condividerli e confrontarli con altri pensieri e pensieri altri; è necessario prendersi del tempo per sentire su di sé le proprie emozioni, prendere confidenza con le vibrazioni del proprio corpo e diventarne consapevoli, restare nella domanda anche se non ne conosciamo la risposta, assaporarla, custodirla, a volte metterla da parte per poi rincontrarla quando meno ce lo aspettiamo.
Maria Luisa Petruccelli [ 02/02/2012 ]